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In Calabria non c’è solo la ‘ndrangheta. Nonostante le minacce
15 Gen 2014 06:46

Déjà vu. Domenica scorsa mentre sono stato raggiunto dalla telefonata del Sindaco di Cetraro Giuseppe Aieta che mi informava del vile atto intimidatorio contro la sua persona  pervenuto tramite l’invio in forma anonima di lettera di minacce corredate da un bossolo di pistola e una cartuccia di fucile a pallettoni, mi sembrava di vedere una sorta di filmato già visto.

Ovviamente abbiamo deciso subito di incontrarci e dopo un momento iniziale in cui ho raccolto tutta la sua  profonda amarezza e sofferenza per la famiglia innanzitutto, che è la prima a subire le conseguenze di questi gesti insulsi ed ingiustificabili posti in essere da persone che conoscono solo la violenza per imporre le loro idee e pretese, ecco emergere in entrambi la sofferenza e l’amarezza  per la Città di Cetraro che balza nuovamente agli onori della cronaca più nera che l’accompagna da oltre un trentennio ormai, fino ad essere identificata con essa con il solito stringato ragionamento stimolato da certa stampa poco attenta a ciò che è accaduto negli ultimi dieci anni proprio a Cetraro, anche grazie all’azione intelligente e lungimirante del Sindaco, dell’Amministrazione comunale e delle altre realtà presenti sul territorio.

Proprio non riesco a rassegnarmi al fatto che il bene non debba far notizia perché non incuriosisce, non stimola l’attenzione superficiale di quei molti altrimenti costretti ad una riflessione sulle tantissime iniziative culturali e sociali tese all’autentico sviluppo di un determinato territorio.

Il bene non solo impegna a riflettere ma a volte – paradossalmente – provoca anche fastidio perché propone un serio esame di coscienza su ciò che si poteva fare e non si è fatto non solo per incapacità, ma a volte anche per inerzia e/o precisa volontà di chi si accontenta dell’ordinario, che in politica si traduce in curare l’interesse di quei pochi che consentono comunque di custodire la proprie comode e calde poltrone, e nelle comunità ecclesiali in “pettinare i riccioli delle poche pecorelle che ancora frequentano le nostre Chiese”, tanto per usare un’espressione cara a Papa Francesco.

Ciò che succede a Cetraro, come ben sappiamo vale per l’intera nostra Regione costretta a pagare un prezzo mediatico, economico e sociale altissimo grazie all’ignoranza, prepotenza ed arroganza di coloro che hanno liberamente deciso di aderire direttamente o indirettamente alla ‘ndrangheta.

L’arresto di Pasquale Capano, noto imprenditore calabrese da anni residente nella capitale, accusato di legami con la ‘ndrangheta e ambienti della malavita locale (banda della Magliana e clan Casamonica) che secondo gli investigatori, attraverso società intestate a prestanome, avrebbe effettuato una serie di investimenti nel settore turistico immobiliare agevolando anche indirettamente, tra gli altri il clan Muto di Cetraro, ha fatto emergere tra i vari documenti emersi dal suo PC, anche una lettera indirizzata ad un pregiudicato, che costituisce una vera e propria lezione di “codice mafioso” in cui si sottolinea come l’affiliazione ‘ndranghetista sia “una scelta di vita” e non solo un “opportunità” di business.

Questo uno dei passaggi del testo che fa davvero rabbrividire,  «la prima cosa che mi è stata spiegata nelle prime frequentazioni di alcuni ambienti – si legge nel documento – è stata la differenza fra concetto di amicizia e fratellanza… infatti l’amicizia è espressione di una frequentazione abituale, la fratellanza rappresenta un legame».   E ancora, «…e’ proprio su questo principio (fondamento della filosofia massonica) che è stato concepito il “rituale iniziatico” di accettazione ed ingresso nella sacra famiglia e onorata società, radicato nella storia antica della nostra terra d’origine».

«Il tempo – scrive ancora Capano – ha dato ragione agli uomini d’onore di una volta, che consideravano l’onorata società pari alla sacra famiglia, non come opportunità affaristica ma come scelta di vita». Credo che questo passaggio della lettera del Capano sia di capillare importanza perché spazza via ogni altro ragionamento, supposizione e a volte anche tentativo di giustificazione di quello che abbiamo più volte definito «cancro esiziale» della nostra terra di Calabria.

Le parole scritte sono pesanti, ed oltre ad esprimere un totale travisamento semantico di termini e valori come l’amicizia e la fraternità (per ovvie ragioni preferisco questo al terme “fratellanza” che volentieri lascio ad ambienti massonici a me poco congeniali), mostrano una totale adesione verso quella forma di diabolica – e non certo sacra – di  famiglia che è ogni forma di criminalità organizzata.

A questi uomini e donne, che utilizzano immagini, riti e termini come sacro, famiglia, fraternità, cari non solo agli ambienti religiosi ma anche alla maggior parte della società civile, intendo semplicemente ricordare che questa loro scelta è totalmente contraria e non conciliabile con entrambe.

Non solo. Oltre ad essere “un peccato strutturale” come lo hanno definito i vescovi italiani, è un atteggiamento che li pone al ad un livello sub umano, addirittura inferiori alle bestie feroci che uccidono per necessità e non per “scelta”.

Non ci lasciamo intimidire, non siamo soli, nessuno lo è neanche il Sindaco Aieta, consapevoli della bellezza di quella scelta di vita che in politica, nella società, e nella Chiesa ci vede quotidianamente impegnati per il bene comune.


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