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La capitale delle mafie è Roma
14 Giu 2013 13:42

Negli ultimi 20 anni il fenomeno mafioso non si è solo trasformato ma è stato capace di evolversi. In un Paese talvolta arretrato come il nostro, le mafie rappresentano la punta più avanzata della modernità: investono nelle energie rinnovabili, nelle nuove droghe, nel gioco d’azzardo e le slot machine, nei compro oro che spuntano come i funghi nelle nostre città.

I clan non stanno a guardare, sono capaci di cogliere i passaggi di fase politica, di adattarsi ad un sistema economico in continua espansione e sono un caso nazionale come hanno dimostrato – la cosiddetta trattativa, l’inchiesta “Infinito”, il voto di scambio a Milano, gli ultimi comuni sciolti per mafia in Liguria, il caso del pentito Nino Lo Giudice che avvelena gli uffici giudiziari a Reggio Calabria.

Quest’ultima, capitale della ‘ndrangheta. Avvolta per anni da inquietante silenzio: siamo dovuti passare dall’omicidio Fortugno nel 2005, dalla strage di Duisburg nel 2007, dalla rivolta nelle campagne di Rosarno nel 2010 fino al necessario scioglimento del consiglio comunale di Reggio affinché si accendessero i riflettori sulla Calabria. E intanto la ‘ndrangheta s’è presa pezzi interi di economia, di società e di territorio del nord Italia (nonostante il grottesco tentativo di minimizzare da parte della Lega) ed è diventata la più grande organizzazione mafiosa mondiale; gestendo enormi capitali e divenendo leader globale del narcotraffico.

E non è un caso se sempre da Reggio Calabria a Roma sia arrivato Giuseppe Pignatone, procuratore della capitale da più di un anno. Roma oggi è una città di mafie alla stregua di Palermo, Napoli, Reggio Calabria e Milano. Ma a Roma in pochi, tra le istituzioni, la politica, gli intellettuali e la cosiddetta società civile, sembrano disposti ad ammetterlo.

Nel 1991 Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Parlamentare antimafia, aveva già denunciato il fenomeno nella Capitale. A 22 anni da quella denuncia i numeri sulle mafie a Roma parlano chiaro, nonostante ci sia ancora un forte deficit investigativo e di conoscenze.

La Guardia di Finanza nel 2011 ha sequestrato beni di provenienza mafiosa per miliardi di euro. 209 gli immobili confiscati nello stesso anno e che fanno piazzare Roma al quarto posto in Italia. Sempre nella Capitale succede che le cliniche private e le comunità terapeutiche con specialisti e medici complici vengano spesso utilizzate come vie di fuga dalla carcerazione o che “rispettabili” professionisti della finanza investano capitali sporchi con speculazioni di difficile decifrazione.

Sul fronte giudiziario invece il 16 novembre 2012 rappresenta una data storica: per la prima volta un gruppo criminale operante nel Lazio (nativo a Casal di Principe) viene condannato al 416 bis. A testimonianza non della non presenza dei clan, ma del ritardo del sistema giudiziario nel suo complesso. Tanto che spesso chi è mafioso per un tribunale napoletano non lo è per quello romano.

La Capitale è attraversata da fiumi di droga. Soprattutto cocaina. È la ‘ndrangheta insieme alla camorra a fare da “cartello” con le organizzazioni criminali internazionali, sudamericane e messicane soprattutto. Le organizzazioni autoctone invece fanno il resto. Ed anche a Roma esiste il controllo del territorio: locali notturni, ristoranti, mercati rionali. Con l’usura, soprattutto. E anche se non viene denunciato il pizzo, pure il racket delle estorsioni è da tempo una triste realtà. Succede ad Ostia agli stabilimenti balneari, avviene alla Borghesiana, ai pub di San Lorenzo vicino Termini. Ed anche nel salotto buono della città, come a piazza Bologna dove da vent’anni c’è chi paga regolarmente “per stare tranquillo”.

Non sono “bande criminali locali” a dare vita a tutto questo come hanno sostenuto finora gli amministratori della Capitale. Qui si consuma la sintesi perfetta tra narcotraffico, usura, politica, finanza, malasanità, professionisti, imprenditori, palazzinari e pezzi di istituzioni corrotte. Un vero e proprio sistema di potere che ha nella clientela, nella corruzione e nel riciclaggio lo snodo centrale.

A Roma c’è bisogno di un grosso sforzo per rendere rapida ed efficace la macchina burocratica che porta all’assegnazione dei beni confiscati alle mafie per uso sociale. Secondo un dossier curato da varie associazioni (tra cui Legambiente, Libera, daSud e Action), meno di un terzo dei beni confiscati sono effettivamente riutilizzati per scopi sociali o istituzionali. Il paradosso è rappresentato dall’Agenzia nazionale per i beni confiscati, che fino al 2012 ha pagato un affitto di 295mila euro l’anno per un immobile in via dei Prefetti. Soldi che potrebbero essere risparmiati se solo i locali di via Ezio al civico 12/14, confiscati alla camorra nel ’96 e ora occupati abusivamente, venissero liberati da un centro benessere, un’agenzia di assicurazioni e un’abitazione privata. Attività che nulla hanno a che vedere con i “fini sociali” che impone la Legge Rognoni-La Torre.

Anche in questo senso la commissione può svolgere un lavoro importante.

Lo dobbiamo a tutte le cittadine e i cittadini, e a tutte le vittime innocenti delle mafie, ai tanti familiari che non hanno avuto verità e giustizia nelle aule dei tribunali e che sono stati sottoposti alla congiura del silenzio e della vergogna. A tutte quelle donne della mia terra che pentendosi hanno messo in difficoltà le ‘ndrine (penso al coraggio di Lea Garofalo e di sua figlia Denise, Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce) o quelle che si sono messe in gioco diventando sindache di territori complessi, come Isola Capo Rizzuto, Rosarno, Monasterace.

Governo e parlamento, insieme alla commissione che andiamo a costituire, dovranno tenere conto di tutto questo. E attenzione alle commissioni di saggi e consulenti, di cui abbiamo sentito parlare in queste settimane: va bene il contributo di tutti, anche di magistrati importanti come Cantone e Gratteri, però sia la politica ad assumersi fino in fondo la responsabilità del cambiamento. Non deleghiamo ancora una volta il nostro compito alla magistratura, al giornalismo, all’associazionismo facendo un danno diretto a questi soggetti, sovraesponendoli ad un’attenzione mediatica eccessiva che sposta lo sguardo dai contenuti del loro lavoro a loro stessi che lo agiscono.

Collaboriamo insieme, senza rilasciare patenti e certificazioni, rinnovando anche qui un mondo rimasto ingessato in alcuni schemi, avendo anche l’onestà intellettuale di dividerci, è auspicabile l’unità ma questo deve avvenire senza rinunce e omissioni. Non esistono verità condivise, esiste solo la verità.


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