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Quel circo-mediatico che fa male alla giustizia
31 Lug 2014 06:52

Giornalismo e giustizia, ruoli e confini.

Si è discusso di questo con Carmelo Abbate, inviato speciale di Panorama, in piazza Celestino V a Isernia, per la ‘prima’ ufficiale dell’associazione onlus nata in memoria di Francesco Casale, giornalista pentro scomparso il 29 luglio dell’anno scorso, a soli 51 anni.

Ospite d’onore – insieme all’autorevole collega de La Stampa Maria Corbi – del convegno dal titolo ‘Il circuito mediatico-giudiziario: quando l’inchiesta diventa fiction’, il noto reporter d’inchiesta ha svelato il ‘lato oscuro’ di una professione delicata e in continua evoluzione, quella del giornalista.

Scoppiettante e avvincente il dibattito, anche grazie alla presenza di altri tre ospiti d’assoluto rilievo: dalla dottoressa Rossana Venditti, sostituto procuratore della Repubblica di Campobasso, al presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Molise, Antonio Lupo, fino al vertice dell’Assostampa Molise, Giuseppe Di Pietro.

Sincero, lucido, di altissimo profilo l’intervento della dottoressa Venditti, stimolato a più riprese dalle domande dei presenti. La sua analisi – apprezzatissima – è partita da un assunto: la pressione mediatica può influenzare notevolmente il lavoro dei magistrati, come quello di qualsiasi altra persona. “I magistrati non sono estranei alla realtà –queste le parole del sostituto procuratore di Campobasso – ma vivono come tutti. Per questa ragione, devono fare uno sforzo di professionalità per sottrarsi ai condizionamenti e non dare luogo a una giustizia ‘popolare’. Del resto, fa parte di un impegno deontologico resistere a pressioni e condizionamenti diretti o più sotterranei, dunque più pericolosi. Ma – ha aggiunto la Venditti – anche le aspettative esterne, quelle della cosiddetta opinione pubblica, possono condizionare rispetto all’esito di un processo”. Il pm ha anche stigmatizzato, con eleganza, l’atteggiamento di certi magistrati che, dopo aver inseguito un certo protagonismo mediatico nel condurre le proprie inchieste, una volta dismessa la toga abbiano sfruttato la propria carriera per aspirare od ottenere altre cariche pubbliche di prestigio.

Lapidaria, in tal caso, la Venditti: “Coloro che fanno questo percorso riscuotono un seguito troppo spesso non meritato, bisognerebbe smettere di seguirli”.

Con una aggiunta: “Le esigenze della giustizia devono essere conciliabili con quelle della comunicazione. Basta rispettare le proprie regole, fare uno sforzo di professionalità per far convivere due mondi che, del resto, sono complementari”.

Tutti i relatori hanno riconosciuto alcune storture di un sistema in cui, per usare le parole di Abbate, “dall’abbraccio mortale tra magistratura e giornalisti si sono costruite troppe carriere in Italia”, a beneficio dell’una o dell’altra categoria. In questo ‘girotondo’, chi ci rimette è, senza dubbio, il cittadino.

In primis nella sua veste di persona che vuole essere informata in maniera ‘asettica’ sui fatti; in secondo luogo se, nelle vesti di indagato o imputato, finisce per essere messo alla gogna, “lapidato in piazza – ancora Abbate – al punto che, a fine processo, seppure riuscisse a dimostrare le proprie ragioni e a farsi assolvere, il ragionamento comune sarà che è stato furbo e l’ha fatta franca, perché proprio la piazza l’ha già condannato”.

Immancabile un passaggio sulla pubblicazione indiscriminata delle intercettazioni: “E’ un abominio secondo me – ha tuonato Abbate – che attraverso un pezzo di conversazione estrapolato da una telefonata si possa dare a un indagato dell’omicida, del pedofilo, dell’estorsore o chissà cosa. Se estrapolassero stralci di conversazioni o messaggi anche dal mio telefono, potrei passare per un delinquente anch’io. E come me, tutti voi”. Un esempio realmente accaduto: il capitano del Palermo calcio, Fabrizio Miccoli, indagato per estorsione, che finì nel tritacarne mediatico dopo la pubblicazione di un’intercettazione con un personaggio legato alla mafia in cui diceva testualmente ‘Quel fango di Falcone’. Una frase che, per quanto possa suscitare indignazione, “non era assolutamente attinente ai reati per i quali Miccoli risultava indagato – ha soggiunto Abbate – Ecco la gogna mediatica, ecco il corto circuito mediatico-giudiziario, con carte che escono quando non dovrebbero e con giornali che fanno a gara per pubblicare questa roba. Risultato finale: il calciatore fu costretto a umiliarsi in conferenza stampa, piangendo pubblicamente e chiedendo scusa a tutti per una frase senz’altro discutibile, ma privata. Non sono, dunque, le trasmissioni come ‘Quarto Grado’ o ‘Segreti e delitti’ il problema. Né bisogna ricondurre il tutto a schemi preconfezionati: bianco e nero, garantisti e giustizialisti. Il pubblico non è scemo, una sua opinione sa farsela da sé. Da parte nostra, bisogna pesare i fatti, singolarmente, caso per caso. E spiegare per bene ai telespettatori, correlando a dovere i dati e fornendo, ove possibile, nuovi spunti a chi indaga”.

Cenni anche sul caso di Yara Gambirasio: qui, tra Abbate e la Corbi, firma di punta del quotidiano ‘La Stampa’ e docente di giornalismo di costume presso la Scuola di Giornalismo Luiss Guido Carli di Roma, c’è stato un vivace confronto di opinioni.

I due reporter infatti – coppia fissa in qualità di opinionisti nel salotto di ‘Segreti e delitti’, la fortunata trasmissione di giornalismo investigativo condotta da Gianluigi Nuzzi – hanno espresso idee diametralmente opposte sulle presunte responsabilità dell’unico indagato Massimo Bossetti, con la giornalista de ‘La Stampa’ che ha rivendicato, anche in tal caso, il principio del dubbio pro reo.

Sul tema del circuito mediatico-giudiziario, inoltre, la Corbi ha sottolineato come “magistrati e giornalisti debbano essere capaci di tenere la barra a dritta, senza trasformare i casi giudiziari in un girotondo di indiscrezioni e pettegolezzi. Spettacolarizzare in maniera impropria l’informazione è un’insidia quotidiana, per chi fa giudiziaria. Tutto ciò che si guarda in tv è spettacolo, ma quando si parla di persone si rischia di rovinare loro la vita, anche se sono colpevoli: intorno a loro ci sono storie di famiglie travolte e distrutte, anche se non c’entrano nulla con i reati commessi dai propri familiari”. Di qui la necessità di rispettare le regole, di tutelare la dignità delle persone, di non avere l’audience come unica stella polare. “Quando si parla di casi giudiziari, specialmente per reati che prevedono pene elevate, bisogna partire dalle carte – ancora la Corbi – bisogna conoscere gli atti, i dettagli oggettivi e non cadere nella tentazione di dare adito al pettegolezzo, all’interpretazione, fosse anche del magistrato. Purtroppo ci sono talk show, specie nel pomeriggio, in cui parla gente su casi serissimi senza conoscere una sola carta: quella non è informazione, ma barbarie. Carte e documenti vanno guardati con occhio critico, sia nell’ottica della difesa che in quella dell’accusa. A quel punto – ha concluso – il giornalista non deve limitarsi a fare da relatore, ma deve fare un’opportuna mediazione a beneficio di chi legge o di chi ascolta. Un cronista scrupoloso, anzi, può anche dare un contributo alle indagini, una sollecitazione alle parti, purché agisca con serietà e senza approssimazione”.

Sulla degenerazione di quella che è stata ribattezzata la ‘tv del dolore’ è intervenuto invece il vicecaporedattore del Tgr Rai Antonio Lupo. Anche qui la critica verso un certo modo di fare televisione è stata senza peli sulla lingua: “Negli studi televisivi – ha spiegato – anche in trasmissioni ben note, si cerca di stimolare la sensibilità del telespettatore attraverso un processo emotivo. Ben diverso è ciò che accade in un’aula di giustizia, dove ci sono strumenti a garanzia degli imputati che non sono inutili orpelli. Con questo, ritengo che oggi un buon giornalista non debba innamorarsi troppo di una teoria, ma piuttosto fare il proprio lavoro con la dovuta prudenza. In specie in un’epoca in cui la verifica delle fonti subisce un’inevitabile accelerazione dovuta alla diffusione dei social network e del web 2.0”. Infine, una battuta sul ruolo del servizio pubblico: “Il buon giornalista dovrebbe cercare di fare meno intrattenimento e più informazione. Il servizio pubblico, anzi, a mio avviso dovrebbe essere proprio epurato dall’intrattenimento. Perché c’è qualche conduttore tv che, non essendo giornalista, si trasforma quasi in una sorta di sciamano”.

Molto interessante anche la testimonianza di Di Pietro, che in qualità di inviato speciale dell’Agi sta seguendo da vicino il processo al comandante Francesco Schettino per il caso del naufragio della Concordia. Il presidente dell’Assostampa Molise è partita da una necessaria premessa: “L’Italia non può restare l’unico Paese al mondo dove il giornalista finisce in prigione per una notizia imprecisa. La legge deve prevedere paletti precisi, danni giusti ed equilibrati che non permettano ‘minacce’ in sede civile, oramai un vero deterrente alla libertà del giornalista”. Poi la necessità di basarsi sulle carte processuali, anche nei casi dove è più facile sbattere il mostro in prima pagina. Schettino compreso, dove la realtà che sta emergendo in sede processuale “è ben diversa dall’immaginario collettivo”.

Presenti al convengo numerosi esponenti dell’amministrazione comunale, con in testa il sindaco Luigi Brasiello, il presidente della Provincia Luigi Mazzuto, rappresentanti delle forze dell’ordine, il consigliere regionale Vincenzo Cotugno, l’assessore regionale Massimiliano Scarabeo, il consigliere nazionale dell’Ordine dei giornalisti Enzo Cimino e il presidente onorario dell’associazione, l’architetto Franco Valente, cognato di Francesco.

Affidate a lui le conclusioni del dibattito con l’efficace metafora del secondo paradosso di Zenone, quello di Achille e la tartaruga. Giustizia e informazione procedono a velocità differenti, dunque i giornalisti, come Achille, corrono più veloci, inseguendo la notizia e tentando di anticipare i tempi della giustizia.

Ma non possono riuscirci sempre: perché quest’ultima, come la tartaruga, è ferma.


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