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Quella strage a Milano dove ancora si nega la parola “mafia”
23 Mag 2013 08:08

Era una sera come tante altre di fine luglio. Una Milano afosa e con poco fermento, come se il consueto “fuggi-fuggi” di agosto fosse iniziato anticipatamente quel 1993. Me la ricordo bene quella sera, quando, ormai quasi a letto, sentii i miei genitori che dicevano “una bomba, a Milano, in centro”!

Ho ancora quella scena nitida nella mia mente. Così come ho ben chiaro dove fossi e cosa stessi facendo il 23 maggio e il 19 luglio del 1992. Date che, forse, hanno cambiato la mia vita e quella di questo Paese ma che, di sicuro, hanno cambiato per sempre quella dei familiari delle vittime innocenti di quelle stragi.

Sono passati ormai quasi vent’anni da quel 27 luglio e tra processi e gradi di giudizio abbiamo ormai la certezza che fu strage di mafia anche se, tra cose non dette, depistaggi e omertà di Stato, non sappiamo ancora quale fu – o quale ancora è – la “sottile linea rossa” che in quel 1993 ha collegato Milano a Roma e Firenze.

Quale furono motivazioni e circostanze o “trattative” che hanno indissolubilmente unito Nord e Sud del nostro Paese tra il 1992 e il 1993.

Verità e giustizia chiedono ancora i familiari delle vittime innocenti di quelle stragi come di altre. E memoria. Una memoria che sia vera e genuina. Che non accetti compromessi.

È questo che penso ogni volta che mi trovo a passare davanti al PAC di Milano in via Palestro, là dove a causa dello scoppio di quella autobomba del 27 luglio 1993 persero la vita cinque persone: i Vigili del Fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’Agente di Polizia Municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina.

 

È questo che penso quando, alzando lo sguardo, vedo quella targa messa nel 1994 dall’allora Sindaco Formentini. “Vittime innocenti di un vile attentato”, recita. E ancora una volta nella mia città non leggo la parola “mafia”. Quasi si avesse paura, timore e preoccupazione nel pronunciarla, figuriamoci nel scriverla. Impotenza. Questa è la sensazione che si prova a vivere in una regione e in una città che per troppi anni ha rimosso il “problema mafia” prima ancora che dalle agende politiche, dalle proprie coscienze.

E allora, tra i tanti, un debito che questa città deve assolutamente onorare verso sé stessa, prima ancora che verso i familiari delle vittime di quelle stragi, è quello di riportare nero su bianco quella che ormai, oltre che verità storica, è anche verità giudiziaria. Perché quella del luglio 1993 in via Palestro a Milano fu una strage mafiosa.

È per questo che oggi, in questa giornata di commemorazioni per ricordare la strage di Capaci, mi piacerebbe che i rappresentanti delle Istituzioni milanesi si prendessero questo impegno. Perché aggiungendo a quella targa l’aggettivo “mafioso” si contribuisca a prendere coscienza della storica presenza delle mafie anche a Milano e in Lombardia. Perché sia definitivamente finito il tempo delle negazioni e inizi quello della verità. Perché è anche per questo che sono rimasta al Nord.


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