';

La #flessibilità ha vinto la scommessa
06 Dic 2015 08:20

I dati sull’occupazione nel secondo trimestre del 2015 sono buoni, soprattutto nel Mezzogiorno: una notizia di cui prendere atto con piacere. Non si tratta di numeri marginali; l’incremento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente è di 120.000 occupati in più, il 2,1%. L’aumento riguarda gran parte del Sud: è fortissimo in Basilicata, assai sensibile in Puglia e nelle Isole, un po’ più lieve in Campania (+1,5%); solo la Calabria resta completamente tagliata fuori.

Anche la tendenza più lunga è positiva: dopo il vero e proprio tracollo del 2012 e soprattutto del 2013, l’occupazione ha ripreso timidamente a crescere a metà dell’anno scorso; l’incremento è diventato più sensibile all’inizio di quest’anno e decisamente forte fra aprile e giugno scorsi. Si è ormai vicini a tornare ad almeno 6 milioni di occupati: una soglia che è stata superata verso il basso nel 2013 e che ha rappresentato un minimo storico. Potremmo vedere nel prossimo trimestre, auspicabilmente, anche l’effetto di una stagione turistico davvero ottima.

Tutto ciò detto, occorre ancora prudenza nel valutare queste tendenze. Scavando nei dati, emergono alcuni elementi più problematici. In primo luogo in chiave settoriale: restando nel Mezzogiorno, l’occupazione aumenta nei servizi privati; notevolmente (+3%) nelle costruzioni, dopo un lunghissimo tracollo; a sorpresa, si ha un boom dell’occupazione agricola (specie in Campania e nelle Isole). Continua invece a flettere nell’industria in senso stretto (un ulteriore -1,9%), al contrario di quel che accade al Nord. Poi – e qui il riferimento è ai dati nazionali, gli unici disponibili – l’incremento dell’occupazione riguarda prevalentemente i lavoratori più anziani (sopra i 50 anni) e non i giovani. Ancora, se crescono gli occupati a tempo indeterminato (+0,7%), e flettono sensibilmente i lavoratori con un contratto di collaborazione, l’aumento più forte si registra – a sorpresa – per gli occupati con contratti a termine (+3,3%). Infine, le turbolenze dell’economia internazionale (da cui era invece arrivata per la nostra economia una spinta decisiva) e le tendenze ancora modeste della crescita in Italia, inducono a non vendere la pelle del lupo di di averlo catturato: specie alla luce dell’enorme terreno da recuperare, e degli anni che passano, e che trasformano la condizione di disoccupato in una vera e propria tragedia esistenziale. Non dimentichiamo mai che siamo in una fase depressiva dell’economia che non ha riscontri col passato: e che se è del tutto sbagliato cullarsi nel pessimismo e nello scetticismo, è bene non confidare troppo in una facile ripresa.

Non è purtroppo quel che accade in Italia, dove è in corso una vera e propria guerra di religione. Da un lato c’è il governo, ansioso di mostrare agli italiani che sono state le sue decisioni (jobs act e sgravi per le assunzioni) a determinare il miglioramento della situazione, e che incita a testa bassa all’ottimismo. A volte, questa “ansia da prestazione” presenta evidenti controindicazioni; è lì a mostrarlo la clamorosa topica di qualche giorno fa dal Ministero del Lavoro che ha diffuso dati clamorosamente sbagliati, corretti da una giovane siciliana, dottoranda in economia a Parigi. Dall’altro le opposizioni si muovono spesso in direzione esattamente opposta: va tutto sempre male, ed è colpa del governo. Difendono talvolta a spada tratta un mercato del lavoro nel quale erano palesi ingiustizie e discriminazioni, iniquità fra tutelati e non tutelati: ancor più al Sud. Onestamente, è assai difficile dire su basi scientifiche quale sia stato sinora l’effetto del jobs act; ma è difficile sostenere che un vecchio contratto di collaborazione per un cinquantenne fosse meglio delle nuove norme. Su questi temi serve meno preconcetti ideologici e più un sano pragmatismo.

Proviamo a ripartire proprio dai fatti. Ciò che mostrano i numeri di ieri è che il Mezzogiorno non è una landa desolata, e che nonostante i colpi durissimi ricevuti nell’ultimo quadriennio (soprattutto da una politica economica dell’austerità del tutto disattenta agli impatti territoriali), mostra una certa capacità di reazione. Una reazione che va, assai più decisamente di quanto non si stia facendo, sostenuta. La creazione di lavoro, specie al Sud, non può che essere il primo e principale obiettivo da perseguire per la politica economica nazionale.

Discutiamo pragmaticamente del mix più opportuno fra flessibilità e tutele dei lavoratori. Ad esempio: il nuovo contratto a tutele crescenti può essere uno strumento per l’emersione del sommerso? A quali condizioni? Accompagnato da quali interventi specifici? Verifichiamo la possibilità di insistere – al Sud – su misure di sgravio per le assunzioni anche l’anno prossimo: pur costose, proprio con queste tendenze possono forse risultare opportune. Ma soprattutto proviamo a far ripartire con più decisione la domanda interna nel Mezzogiorno, la vera condizione per cui si tornerà davvero ad assumere; sia attraverso un forte rilancio degli investimenti pubblici e privati, sia attraverso un’azione mirata sulle fasce di popolazione in povertà. Non fra qualche anno: ora.

E’ forte l’aspettativa sul cosiddetto “masterplan” annunciato per metà mese dal Presidente del Consiglio: certo non è chiaro quanto il PD abbia davvero voglia e capacità di prepararlo. Sarebbe un tragico errore cavarsela con quattro slogan: proprio i dati di ieri, dopo la interminabile, lunghissima sequenza di numeri negativi, indicano che è davvero il caso, e il momento, di prendere il Mezzogiorno sul serio.


Dalla stessa categoria

Lascia un commento