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Giovanni Falcone, un eroe contemporaneo
23 Mag 2013 12:03

Il pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero ospite a casa di amici, faceva già molto caldo e mi aggiravo inquieto alla ricerca di una bibita fresca e di un libro. Erano quasi le sei del pomeriggio e la radio sparava musica a tutto volume quando all’improvviso cessano le note e irrompe la sigla di un notiziario fuori orario.

«Attentato in Sicilia. Una quantità enorme di tritolo ha distrutto un tratto dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo. Lo scoppio è avvenuto all’altezza dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine. Sembra che tra le persone coinvolte ci sia il giudice Giovanni Falcone». Poco dopo la tragica conferma: «Giovanni Falcone è morto in un attentato e con lui muoiono sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della sua scorta».

Non conoscevo Falcone, ma avevo con lui e Borsellino, una familiarità e una vicinanza che era cresciuta negli anni. Ho sempre pensato, e penso tuttora, che quella grande stagione di speranza per la Sicilia e per l’Italia intera che é stata la “Primavera di Palermo” non sarebbe mai esistita senza il lavoro, le idee e il coraggio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Oggi è il 23 maggio e sono trascorsi ventuno anni da quel barbaro agguato e come ogni anno anche oggi si ricorderà Giovanni Falcone. Tanto fu avversato in vita tanto viene celebrato oggi. Gli furono contro i suoi colleghi, la politica tutta, dalla destra alla sinistra transitando per quella Democrazia Cristiana che soprattutto in Sicilia governava incontrastata e incontrastabile, gran parte della stampa, e quelli che comunemente chiamiamo “i poteri forti”. Lui non ha mai abbassato la guardia, dritto per la sua strada, dimostrando con il suo esempio che si può cambiare in meglio il mondo in cui viviamo.

Tra tutti i libri pubblicati sull’argomento quello che continuo a preferire è “Cose di Cosa Nostra”, venti interviste rilasciate tra il marzo e il giugno del 1991 dal giudice palermitano alla giornalista francese Marcelle Padovani. Un libro che è un testamento morale. Una narrazione che ci conduce dentro “Cosa Nostra”, ne svela il suo vocabolario, il suo modo di intessere relazioni e contagiare negativamente la società civile.

«Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana. Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi». Una narrazione che ricostruisce, in maniera puntuale, l’organizzazione criminale e il suo organigramma. I comportamenti e le regole. «Gli uomini d’onore sono in Sicilia probabilmente più di cinquemila. Scelti dopo una durissima selezione, obbediente a regole severe, dei veri professionisti del crimine. Anche quando si definiscono “soldati”, sono in realtà dei generali: O meglio cardinali di una chiesa molto meno indulgente di quella cattolica».

Che ricostruisce la sequenza degli omicidi e delle responsabilità, il ruolo indispensabile dei pentiti e la sua idiosincrasia a processare la politica pur non esimendosi dall’esprimere giudizi a questo proposito. «Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione».

In una delle tante ristampe Padovani propone una nuova e stimolante introduzione in cui si pone e ci pone alcune domande. «Spesso mi sono chiesta che fine avevano fatto le migliaia di ragazzi e ragazze che manifestavano la loro ostilità alla mafia nel ’92-‘93 dopo gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Spesso mi sono domandata a cosa pensano oggi e credono oggi; se hanno dimenticato la loro rabbia di ieri; se hanno trovato un lavoro; se resiste alle mille insidie della vita quotidiana la loro scoperta della legalità».

Non conosco, ovviamente, quei ragazzi e quelle ragazze a cui fa riferimento Marcelle Padovani, ma sono certo che molti di loro oggi s’impegnano per gli altri grazie anche all’insegnamento di Falcone e Borsellino, perché come recitava uno striscione divenuto ormai famoso, e che raffigurava i due giudici sorridenti e in un atteggiamento complice, “le loro idee non moriranno mai”.

Ho conosciuto qualche anno fa Rita Borsellino, la sorella di Paolo Borsellino, ad un’iniziativa di raccolta fondi per beneficenza che si é tenuta a Pescara, nella mia città. Mi ha parlato di quei giorni e del dolore per la perdita che non scema.

Quella sera, dopo quasi venti anni, sono riuscito finalmente a piangere. L’ho fatto solo quando Rita mi ha salutato e si è allontanata, per pudore.

«Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si é privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».


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