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“Noi donne calabresi costrette a fuggire per non fare la fine di Fabiana”
27 Mag 2013 16:35

Pubblichiamo la lettera che Francesca Chaouqui, trentenne calabra, direttore delle relazioni esterne di una multinazionale,  ha inviato al Corriere della Sera.

Sono nata in Calabria 30 anni fa, in un paese di 2000 abitanti vicino a Corigliano. Dalle nostre parti si fa voto a San Francesco di Paola per avere un maschio, in Calabria tutte le donne vogliono un figlio maschio, ancora oggi. Se nasci femmina la tua stessa venuta al mondo disattende la volontà di chi dovrebbe amarti incondizionatamente ma nonostante questo la Calabria è una terra matriarcale, sono le madri a indirizzare le famiglie, a aiutare i figli nelle scelte e anzi spesso a decidere per loro.

Fabiana era di Corigliano e per capire la sua vita e la sua morte atroce immaginatevi un paese arroccato di case costruite la maggior parte nel dopoguerra e mai ristrutturate, sentite l’odore dei camini accesi l’inverno, l’unico bar nella strada principale teatro della vita sociale dei pochi rimasti, severo e insindacabile tribunale di chi vale e di chi non vale, di chi conta e chi no.

La maggior parte degli avventori sono anziani. Si perché quasi nessun giovane rimane in Calabria, una terra splendida ma con troppo poco da offrire e quasi niente da costruire. Sono sicura che anche Fabiana Luzzi sognava di andar via.

Partiamo tutte a bordo di pullman stanchi verso la capitale oppure Bologna, alcune volte Milano. Arriviamo qui in queste città dove le mamme e le figlie si baciano, si raccontano tutto, dove se fai l’amore la prima persona a cui lo dici è proprio tua mamma sicura che anche lei alla tua età ha fatto lo stesso. In Calabria se a 16 anni fai l’amore e tua madre, o peggio ancora tuo padre, lo scoprono sei certa di aver dato la peggiore delusione che potevi ai tuoi genitori.

Fabiana è cresciuta come tutte noi, sentendosi dire cittu ca tu si filmmina, non su così pi tia, fai silenzio, sei una donna non sono cose per te. Davide sarà cresciuto aspettando il suo battesimo del fuoco, la prima volta, quella che ti fa entrare al bar spavaldo a dire mo sugnu n’uomminu, ora sono un uomo, come se bastasse questo per essere cresciuto e aver trovato un ruolo in quella società.

Il rapporto fra uomo e donna in Calabria si forma presto, un binomio di due mondi paralleli che non si trovano mai, molti crescono vedendo padri e nonni dare qualche sganassone alle compagne, vedono loro reagire senza reagire, accettare quei comportamenti come connaturati agli uomini per retaggio culturale e sovrastruttura sociale.

Si incassa, si va avanti, ca non è c’ama fa ridi i genti, non dobbiamo far sogghignare la gente, un’espressione tipica per dire che i panni sporchi si lavano in famiglia. I ragazzi guardano, imparano che la violenza è virilità, che fa parte del gioco delle coppie, diventa spesso parte di loro. Alcuni la metabolizzano, altri no. Le donne in Calabria, sono poche quelle che restano, poche quelle che amano liberamente, poche quelle che hanno compagni che le considerano loro pari in ogni cosa.

Così andiamo via, sono le nostre madri a volerlo, i nostri padri a lavorare per poterci permettere di farlo. Diventiamo magistrati, insegnanti, avvocati, siamo pronte a parlare di tutto, con una mentalità aperta che non ha nulla a che vedere con quella con cui siamo cresciute. Dentro di noi però portiamo il peso degli insegnamenti che il piacere, la libertà sono cose da maschi, ci ribelliamo ma difficilmente ce ne liberiamo del tutto.

Noi calabresi oggi siamo tutte Fabiana, chi è rimasto e chi come me è andata via, ma un pezzo del mio cuore è ancora lì, nonostante tutto.


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