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La “teoria di Wimbledon” può salvare l’Italia
16 Feb 2015 06:48

Purtroppo, all’industria italiana non basta più l’imprenditore con la valigia capace di andare a vendere frigoriferi agli eschimesi. Meno che mai è utile che, invece di fidarsi della sua stessa azienda, preferisca comprare case in Sardegna. Servono a poco anche gli assessori che vanno con una delegazione in Cina.

Il risultato di tutto questo è stata la crisi passata come un carro armato su di loro. Il 20 per cento della capacità produttiva perso, le auto scese da 900 mila a 500 mila l’anno, gli elettrodomestici da 27 a 16 milioni.

Come rimediare in un Paese che dell’industria non può fare a meno? Ecco allora il solito scontro.

Da un lato: ci vuole una politica industriale. Dall’altro: lo Stato stia al suo posto, sarà il mercato a promuovere o bocciare. Ed ecco il libro “Cacciavite robot e tablet. Come far ripartire le imprese” (il Mulino, pag. 139, 12 euro) con gli autori campioni delle due tesi: Gianfranco Viesti, economista dell’università di Bari, Dario Di Vico, inviato del “Corriere della Sera”.

Viesti è per il ”quadrato magico”. Il mondo è diventato più grande (Paesi ex comunisti, asiatici, Russia Brasile Turchia): devono crescere la dimensione e i capitali dell’industria italiana, deve crescere la sua capacità di essere internazionale. Il mondo è diventato più connesso: devono crescere le conoscenze e le qualità umane (abbiamo ancòra il minor numero di laureati e diplomati d’Europa). Sono i lati del quadrato magico. Che gli imprenditori non potranno mai mettere insieme da soli.

Allora ci vuole lo Stato. Non è vero che la migliore politica industriale è non farla. E non lo Stato minimo di più formazione e infrastrutture, di meno burocrazia e meno tasse (o meno costo del lavoro, voilà). Non sufficiente.

Perché per tutto questo occorre il tempo che non c’è. Lo hanno capito ovunque, a cominciare dagli Stati Uniti in cui parlare di Stato sembrerebbe una bestemmia.
Senza i soldi di Obama, non ci sarebbe la Fiat-Chrysler. Non si sarebbe salvata la General Motors. E prima non sarebbero nati i colossi dell’informatica a cominciare da Apple.

E il sostegno italiano alle imprese è sotto la media comunitaria europea. Cosa saremmo oggi senza l’Iri di 80 anni fa? Allora: contratti di programma o localizzazione o sviluppo, capitali misti con le imprese, incentivi alle assunzioni di giovani talenti, agevolazioni fiscali per la ricerca. Senza tutto questo, non si supera la “valle della morte”. Purtroppo, non la si supera.

Di Vico è per la politica industriale sì, ma on the road, strada facendo. Non ricette. Meno tasse sulle imprese, d’accordo. Ma imparando dai francesi la capacità di vendersi. Dagli inglesi il commercio on line, elettronico. Dai tedeschi il buon rapporto con le banche e l’istruzione tecnica. Dagli americani il coraggio di innovare. E dagli italiani il Made in Italy che il mondo ci invidia.

Gli esempi non mancano. Le banche dalle quali due grandi marchi del lusso hanno ottenuto credito a condizioni migliori per i loro clienti e fornitori. Il boom del farmaceutico grazie alle biotecnologie. Il mercato globale conquistato da una famosa etichetta delle bevande dopo il passaggio a una multinazionale (quindi non il diavolo per principio).

La “teoria di Wimbledon”, essenziale è giocare su quel campo come tutti vorrebbero produrre sul campo dell’Italia dove (nonostante tutto) si vive bene e dove gli imprenditori italiani stessi cominciano a tornare. Passare dalla vendita pura e semplice del prodotto alla cura del cliente.

Ci sono i giovani delle nuove imprese creative. E c’è un apposito Fondo strategico nazionale, soldi che non puzzano neanche per i talebani del liberismo.

Sintesi. Né Viesti né Di Vico suonano la ritirata. Anche l’Italia può ancora passare dal cacciavite al robot al tablet, far ripartire le imprese.

Il libro è un atto di fiducia: non dimentichiamo che esportiamo coltelli in Svizzera, birra in Inghilterra, patate in Germania. Occorrerebbe solo che il Paese diventasse più serio.

Il problema più serio di tutti.


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