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Decreto Rilancio: il Governo risponde “Antani” alla richiesta di aiuto dei lavoratori intermittenti
20 Mag 2020 09:51

In approvazione il decreto che accompagnerà nella fase due durante l’emergenza coronavirus: fuori quasi tutti i lavoratori intermittenti dello spettacolo.

Sconfortati e sul piede di guerra centinaia di lavoratori dello spettacolo e della musica lasciati fuori dagli aiuti del Governo e che non si vedono riconosciuti i tanti sacrifici nel mettere in piedi e promuovere manifestazioni, eventi, concerti e altro ancora.

I requisiti per accedere al “bonus” di 600 euro per i lavoratori intermittenti esclusi dal Decreto “Cura Italia” sono per lo più esilaranti visto che vengono richieste 30 giornate lavorative dal 1° Gennaio 2019 al 31 Gennaio 2020.

Pochissimi sono i casi in cui si è riusciti nell’impresa di accedere con maglie così strette per essere sostenuti in un periodo in cui non si sa quando potranno riprendere le attività culturali.

La Cassa integrazione in deroga applicata agli intermittenti

Ancor peggio è la Cassa integrazione in deroga apre ai lavoratori intermittenti, ossia la categoria dei lavoratori con contratto a chiamata che oltre ad avere i requisiti delle trenta giornate lavorative verrà calcolata sulla media delle mensilità percepite da lavoro (dodici mesi per alcune regioni e 3 per altre).

Un lavoratore intermittente vede il suo contratto attivarsi solo quando c’è lavoro e si vedeva già in tempi precedenti al coronavirus, applicare una pressione fiscale fino al 70%.

Per i lavoratori delle cooperative dello spettacolo e non solo, trenta giornate lavorative corrispondono a fatture da 1500 euro al mese che portano a sei giornate lavorative da otto ore.

Si perché, per l’Inps si intende la giornata lavorativa è di otto ore e nel caso si abbiano dieci giornate lavorative da quattro ore sarebbero calcolate come cinque giornate.

Mentre per l’Istat avere un contratto di lavoro intermittente vuol dire avere occupazione e quindi essere riconosciuto come lavoratore, per il Governo italiano vuol dire lavorare almeno trenta giornate lavorative, fatturare un minimo di 1500 euro al mese e vedersi applicati, come tutti, una pressione fiscale del 70%.

Quando gli stessi lavoratori chiedono aiuto l’unica risposta che hanno ricevuto finora è “Antani”.

L’unica speranza è racchiusa ancora nella discussione ad un Decreto non ancora approvato e che può essere modificato tramite emendamenti presentati dai parlamentari.

Non ci resta che sperare nonostante il comparto cultura fatto di tante maestranze e professionalità sia in balia di una tempesta su una nave di cui non riesce a riprendere il timone.


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