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L’emigrante che cercava il silenzio
20 Gen 2015 09:24

Tanti figli, tante braccia. Si ragionava così al Sud, fino alla fine degli anni ’60. Poi le braccia divennero solo bocche da sfamare e fare un figlio un fatto da ragionare. Almeno dopo il terzo.

Nella famiglia di Michele erano in tredici. Undici figli, tra i tre ed i quindici anni.

Le scarpe erano per sette, quindi la mattina qualcuno rimaneva in casa. Chi si alzava prima, aveva più probabilità di camminare.

Era il 1950, la famiglia di Michele aveva un frantoio. Il più piccolo del paese ma il più funzionale. Durante l’anno si convertiva in deposito, in cantina vinicola, in mercatino di roba usata. Tutto per sfamare costantemente tredici vite.

Ma il soldo non basta, un paio di raccolti di olive andati a male, costrinsero Michele a partire per le Americhe, destinazione Uruguay, per raggiungere suo fratello.

Quando arrivò venne accolto da sconosciuti che lo ospitarono qualche giorno a Montevideo, poi finalmente l’abbraccio con il consanguineo Alberto.

“Ascolta, noi siamo nati poveri ma non è detto che così moriremo.”

Entrarono poi in una casa più che dignitosa, dove al muro c’erano bei quadri, in terra qualche tappeto, la cucina piena di cibo, bottiglie di liquore, sigari, un grande tavolo con otto sedie. Michele, guardava intorno con meraviglia crescente.

“Ma questa casa di chi è?’

“E’ la mia.”

“La tua?”

“Certo, non è detto che moriremo poveri. Appunto.”

Mangiarono carne arrosto, bevvero un vino dolciastro, fecero risate su qualche aneddoto. Ma Michele era un po’ perplesso e deluso. Poche le domande sulla famiglia, sul paese, sul da farsi.

“Io vorrei trovare un lavoro.”

“Già tutto fatto. Domani mattina salirai su un camioncino e aiuterai un amico a fare delle consegne.”

“Tutto qui?”

“Si, questo basta per farti avere la paga mensile. Sono soldi per sfamare tutti. Stai tranquillo”

L’autista del camion era un tipo rude, con delle mani molto grosse e grasse. Un uomo di poche parole. Italiano della Basilicata.

“Guardami bene, che tuo fratello vuole che impari a guidare.” E dopo tre giorni gli mise uno sterzo tra le mani e Michele iniziò a macinare i primi chilometri.

Dopo un paio di settimane stette a cena dal fratello Alberto.

“So che hai imparato a guidare. Da domani il giro di consegne lo fai da solo.”

Michele annuì, ma era ancora molto spaesato. Non sapeva lo spagnolo, dormiva in una casa decente ma un po’ buia, non riusciva mai a vedere il fratello, non conosceva ancora uno straccio di amico con cui fare due chiacchiere. Ma cosa poteva pretendere? Quando vide la prima paga ed ebbe soldi in tasca, la nebbia cominciò a diradarsi.

E così la sera poté accedere ad un bar, dove ordinò molti boccali di birra e fece amicizia con un italiano, che ordinava altrettanto. “…..e quindi guido questo camion…e ho undici figli…….ho scritto già un paio di lettere a mia moglie…..”

L’altro “…….e lavoro in una campagna…..e mi trattano bene…….e ho già iniziato a costruire la mia casa in Puglia…..”

Continuarono a parlarsi nel loro rispettivo dialetto, ma si capivano.

“E ora di andare….ma non mi hai detto il tuo cognome.’

“Mi chiamo Tristaldi, Michele Tristaldi.”

L’uomo fece una smorfia, tirando dietro il capo. Poi lo salutò fugacemente.

Non si incontrarono più.

Michele era alla sua seconda paga. Ormai era diventato una sorta di orologio svizzero. Sveglia alla sei, partenza per le consegne alle sei e trenta, pizza di pane e companatico alle undici, fine del giro alle tre pomeridiane. La sera due bicchieri al bar, ritirata alle ventuno. Ed il sabato era a casa di Alberto, per una bella mangiata e qualche chiacchiera.

Una sera era seduto al solito locale e aveva bevuto un po’ troppo, così quando un uomo gli calpestò un piede malamente, reagì offendendolo. Questi gli si avventò contro, ma il padrone della locanda lo prese per i capelli e cercò di trascinarlo fuori. Nacque un altro parapiglia. Alla fine il locandiere gridò all’uomo: “Ma lo sai chi è quello?….E’ un Tristaldi!”

“Chi…quello straccione?” fu la replica. Alcuni annuirono e la rissa tra i due finì.

Michele prese la scia di casa. Era sbalordito. All’annuncio del suo cognome la sala si era calmata. Quantomeno strano.

“”Hai capito Albe’….il barista mi ha difeso e conosceva pure il nostro cognome. E quando lo ha detto ad alta voce…tutto si è fermato.”

“Vedi Michele, io sono dieci anni che sto in questo posto e mi sono fatto una mia reputazione.”

“Si, ma quelli sembravano impauriti.”

“Ma no. E’ che sono dei poveracci. Come lo ero io. Ma noi non moriremo poveri.”

Michele non aveva capito granché ma a lui interessava il lavoro e la paga. E così continuò la sua routine. Ma il fratello gli consigliò di non frequentare più quel bar e lui ascoltò. Tra l’altro non ne aveva nemmeno il coraggio.

Dopo qualche settimana venne fermato ad un posto di blocco della polizia locale. Scese dal camion, mostrò la patente (un foglio con quattro scritte illeggibili), i documenti e poi sentì porsi una domanda. “Ma tu conosci Alberto Tristaldi?”

“E’ mio fratello.”

Gli agenti lo caricarono su una camionetta e lo portarono in caserma. Lì, con un interprete, gli fecero molte domande. Tutte sulla vita di Alberto.

Lui parlò della sua emigrazione, dell’incontro, delle sue consegne. Il capo degli agenti, o quello che sembrava esserlo, capì che era un poveraccio e lo fece riaccompagnare al camion.

Michele, quella sera, chiese spiegazioni più circostanziate.

“Albè, qui c’è qualcosa che non va. Ogni volta che sentono il nostro cognome succede qualcosa di strano e non di bello.”

“Michè, qui è meglio che ti parlo chiaro.”  Seguì una lunga pausa.

“Si dice in giro e specifico ‘si dice’, che io sono un contrabbandiere. Può essere che lo sono, può essere che sono diventato ricco, può essere che i miei metodi piacciono ed alcuni non piacciono…… ma se un fratello ti scrive dall’Italia e ti dice che ha undici figli di sfamare e non ce la fa, tu che fai? Lo fai morire di fame? Gli mandi qualche soldo per un po’ e poi te lo togli dai piedi? Lo fai venire qui per scoprire chi sei –  ma gli salvi la vita? Io ho scelto di far scoprire alla mia famiglia cosa faccio e come campo. E’ stato un duro colpo per me, perchè volevo vivere bene ma tornare al paese con la testa alta. Adesso la testa me la sono giocata. Ma spero di aver salvato tredici vite. Sono cose delicate queste, pensieri complessi. Non si riesce a capire se hai sbagliato.”

Michele tornò in Italia accettando un mensile decente in cambio del silenzio.


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