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Vi spiego perché un insulto (terroni) racconta la nostra storia
30 Nov 2014 08:33

Perché questo titolo? Mi chiedono in molti. Capisco che può lasciare perplessi. Ma tutto ha una ragione. E io, proprio per non lasciare cose in sospeso, quella da cui nasce questo titolo la dico in apertura del libro. E qui la riporto:

Nooo: Terroni ’ndernescional! Lo so, qualsiasi cosa stiate per dirmi, me la sono già detta da solo (a quando Terroni 2 – La vendetta, Il ritorno dei terroni?). Però sono costretto a usare nuovamente, in modo improprio, fra il sarcastico e l’affettuoso, un termine, “terroni”, concepito come un’offesa contro chi è ritenuto “meno”, perché meridionale (e un po’, pure del contado). Non esiste un’altra parola che trascini con sé quei significati e il giudizio negativo correlato.

Quando Terroni fu tradotto negli Stati Uniti, né la lodatissima traduttrice, Ilaria Marra Rosiglioni, né il preside del prestigioso John Calandra Institute, l’istituto di Italianistica della City University of New York, il professor Anthony Julian Tamburri, riuscirono a trovare un termine corrispondente nella ricca collezione di insulti coniati per i lavoratori della terra e gli immigrati italiani. Così, Tamburri volle premettere al libro una sua nota, spiegando che l’espressione che più si avvicina a “terroni” sarebbe “dirtball”, palladiterra, un dispregiativo per i contadini.

Ma è un insulto molto più democratico, perché non considera anche l’origine geografica di chi viene insultato.

Per questo, nell’edizione statunitense, il titolo del libro rimase Terroni.

E dovendo parlare del rischio che gli errori che hanno diviso l’Italia, incarognendola, possano far (dis)unire l’Europa, trasportando nel terzo millennio un metodo già riconoscibile nel modo in cui il Piemonte, dal 1720, condannò la Sardegna a un ritardo storico, non ho trovato di meglio che recuperare
la parola che da sola spiega il come e il cosa, indicando pure una direzione, il Sud.

Per restare al livello cafonesco di “terroni”, ma uscendo dai confini in cui il termine è nato, non c’era che aggiungere un “international”… terronizzato, si capisce.
Sono giornalista. Chi fa questo lavoro conosce l’urlo che segna il raggiungimento del titolo giusto: «È il suo!» (quando le agenzie che danno i voti agli stati declassarono la Francia da “AAA” a “AA”, nonostante le supponenti smentite parigine della vigilia, il New York Times fece il titolo più bello che abbia mai letto: “Oh, oh: AA!”. Ero a Manhattan, in strada, da solo; per la sorpresa e l’entusiasmo cominciai a dire ad alta voce: «Bravo, bravo, bravo!». Mi guardarono come un matto). Il guaio è che qualche volta molte ragioni sono contro il giusto titolo.

E io una volta le ho ascoltate, mi sono pentito, e mi sono detto: mai più! Fu quando dirigevo il settimanale Gente. Campionato mondiale di calcio; partita decisiva Italia-Francia: i 90 minuti in cui la tracotanza francese e l’insofferenza italiana diventano odio (poi, per fortuna, c’è il fischio finale dell’arbitro e i rapporti tornano al normale sfottò). Tempi supplementari, dopo l’1 a 1; 111mo minuto: Zidane, l’uomo-squadra dei francesi, avanza verso Materazzi e gli schianta una testata in petto. L’italiano muore, all’istante. I resti di quello che fu un atleta giacciono inerti sul campo, pronti a resuscitare (il morto non lo dice, ma è chiaro a tutti) appena Zizou sarà espulso.
L’arbitro non se la sente di negare il favore al cadavere. Zizou è fuori; Materazzi risorge. Il mondiale è nostro, ai rigori (Oh, oh: 5 a 3)!

Si saprà che l’azzurro aveva detto a Zidane qualcosa sulla sorella. Tutti vogliono sapere cosa (e persino se la conosce). Io sono subito più sincero, mi chiedo: com’è la sorella di Zidane? Nessuno lo dice, non c’è una foto.
Chiamo una mia redattrice, brava, ma timida e ansiosa; è venerdì, noi chiudiamo il giornale il lunedì. Le dico che può fare a meno di tornare in redazione se rientra da Marsiglia senza foto della sorella di Zidane. È una bastardata: mica posso licenziarla, questo lo vedi solo nei film americani. Ma lei mi prende sul serio, piange. Piangerà anche quando chiederà aiuto ai colleghi marsigliesi che non hanno diffuso foto della ragazza (per proteggere il loro idolo cittadino, penso).

La mia collega è una brava ragazza, se ne accorge anche un tavolino; ed è giovane e bella. Chi è il cuore di pietra che potrà restare insensibile alla sua disperazione?
Lunedì lei rientra, con due foto: un primo piano della sorella di Zidane (bella moracciona mediterranea) e un’immagine della famiglia, tutta insieme! Più di quanto sperassi.

Impagino tutto da solo e sparo il titolo: Zizou, salutam’a soreta. È franco-algerino, lui, diciamo che siamo quasi parenti terroni. A giustificare quel pizzico di cattiveria del titolo, basta il veleno che ci sputano da Oltralpe, ogni giorno, in quei giorni, per la partita persa, e lo stesso Zidane, incattivito per essere caduto nella più stupida delle trappole, per un capo: perdere le staffe. Ammiro Zizou, così bravo, serio, senza fisime da star, ma Ennio Flajano diceva che è meglio perdere un amico che una battuta e io, Zidane, oh… manco lo conosco!
Il vicedirettore, Roberto Angelino, e il redattore capo centrale, Massimo Borgnis, appena vedono le pagine, mi raggiungono allarmati: «Vorrai mica lasciare davvero quel titolo! È uno scherzo?». No, dico sul serio. Ci mettono due ore. Sono professionisti solidi, saggi e così onesti che sanno dare torto al direttore, se necessario (ai direttori di norma si dà ragione); mi convincono.
Lo cambio. E sbaglio. Sul numero successivo del giornale scrivo una lettera ai lettori, per scusarmi di averli privati del titolo giusto.
Be’, non voglio fare la stessa cosa con i lettori di questo libro. E Terroni ’ndernescional sia!

E di cosa parlo? Ho cercato di capire perchè la Sardegna sia di fatto assente nella nostra storiografia, e sono finito in Germania Est, sulla scia di un modo per rendere minoritari alcuni Paesi e la loro gente, che i tedeschi ora vorrebbero estendere all’Europa mediterranea, dopo averlo fatto con i loro fratelli orientali.

Non si diventa terroni (o… terronen) per latitudine, ma ogni volta che si nega la parità fra i cittadini di uno stesso stato o dell’Unione Europea.

È la volontà che fa le differenze.


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