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I volti infernali negli scatti di Robert Capa
18 Giu 2013 07:54

La capacità di catturare dentro uno scatto la bellezza o lo spirito lancinante, muto ma assordante, di un’epoca, non è questione di pixel. Gli anni più bui del Novecento, quando la guerra era un panorama fisso e inesorabile. E lui non se ne perse una, anche quando avrebbe agilmente potuto volendo. Volle sempre stare, a rischio quotidiano della propria vita, in prima linea. Sacrificio e grandezza del più grande testimone meta-oculare del Secolo Breve e guerrafondaio.

L’estate scorsa a Verona la Mostra ROBERT CAPA, realizzata da Magnum Photos (la mitologica agenzia che lo stesso Capa fondò nel 1947 con Henri Cartier-Bresson e David Seymour), ha reso omaggio a uno dei più giganteschi fotografi del XX secolo.

Il percorso espositivo era innervato da 98 fotografie in bianco e nero, 98 capolavori per potenza sia emotiva che iconografica, e si apriva con il primo reportage realizzato da Capa, nel 1932, a Copenhagen, durante una conferenza di Leon Trotsky, nella quale il grande fuoriuscito, teorico e oratore russo, costretto all’esilio, metteva alla luce per la prima volta i crimini dello stalinismo. A seguire gli anni del Fronte Popolare a Parigi, la guerra civile di Spagna, l’invasione giapponese della Cina, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, che Robert Capa coprì in avanscoperta su più fronti, fu lui per esempio come è arcinoto a documentare, in tempo (truculento) reale, lo sbarco americano in Normandia Ecco la liberazione di Parigi dai nazisti, giornata di festa, mentre i cecchini sparano dai tetti.

I reportage in Unione Sovietica nel 1947, quella sterminata costellazione o collezione di nazioni che si piccava di essere la culla dell’uomo nuovo lo sconcertò non poco; il viaggio in Israele nel 1948, per raccontare la nascita dello stato Ebraico; l’ultima rotta fatale, lIndocina, nel 1954, dove perse la vita saltando su una mina antiuomo, aveva soltanto quarant’anni e morì il 25 maggio, “morire di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio”, cantava De Andrè, e a Robert Capa il coraggio non è mai mancato, che senso avrebbe, altrimenti, vivere?

Volti e fisionomie che sembrano di oggi si accavallano in un banale carosello infernale quotidiano, voluto dall’uomo sull’uomo. La grottesca abiezione della guerra spiata dal portone principale della vita. Un  giovane lealista e un giovane repubblicano spagnolo che oggi magari brinderebbero a short drinks nsieme sulle ramblas, qui, appena ieri, si feriscono a morte. La morte, e la neve, che piovono indifferentemente dal cielo. Le truppe del caudillo Franco stanno per entrare a Barcellona, ci si prepara alla mobilitazione. Un soldato-bambino cinese, maschera di compunzione. Gli occhi tragici di un soldato alla cerimonia di congedo delle Brigate internazionali. Suonano di continuo le sirene  antiaeree. Si guarda, con le buste della spesa, in alto. C’è persino chi sorride.

E infine i ritratti di Ernest Hemingway, William Faulkner, Henri Matisse, Pablo Picasso. Erano questi gli amici del cuore di Robert Capa, un tipo allergico a ogni retorica e a ogni cliché, a ogni presunzione, pieno di vita, ogni luogo era anche il suo luogo, ogni uomo era anche il suo uomo.


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