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Venti secondi una vita
05 Dic 2014 09:08

Nelle stanze dell’Hotel Luxus, per tre mesi all’anno, soggiornava il barone Deapolis. Era l’albergo di Capri più bello, a picco sui faraglioni e da giugno agli inizi di settembre, il nobile vi trascorreva le sue vacanze.

Mussolini si era insediato da qualche anno a Roma, la radio aveva fatto la sua apparizione, il turismo montano iniziava a muovere i primi passi.

Il Barone aveva ereditato un feudo consistente, dalle parti del Molise e dopo aver discusso con i coloni in autunno inverno e primavera, staccava la spina e si immergeva nelle bellezze naturali dell’isola.

Faceva bagni, andava a pesca con gente del luogo, rivisitava i posti più belli, ritrova i suoi amici internazionali, faceva lunghe passeggiate nelle zone più impervie, stazionava nei locali.

Non era amato il barone, se pur presenza fissa dell’isola e uomo di mancia maniacale. Troppo chiuso, troppo altero, troppo distaccato. L’esatta fotografia della sua famiglia. Sua madre era così, suo nonno anche, suo zio più o meno. L’aria di Capri non era riuscita a corrompere il suo comportamento.

Lo seguiva un suo uomo fidato, che gli faceva da maggiordomo, da guardia del corpo e da facchino. Un uomo scelto da una dura selezione nei paesi che interessavano tutto il feudo. Sapeva anche usare le armi ed era armato di pistola.

Si chiamava Ernesto e con lui il barone si sentiva sicuro.

“Buongiorno barone, vi apro le tende, sono le otto. Oggi dobbiamo andare a Napoli, la barca parte alle nove.”

“Eh si! Oggi andiamo dal notaio a sistemare una faccenda che mi sta a cuore.”

Dopo un ora e mezzo erano al largo, imbarcati.

“Ottima giornata, nemmeno un onda, barone”.

“E’ luglio, ma in effetti qualche onda poteva esserci, ieri non sembrava calmo questo mare.”

Nella sala d’aspetto del notaio c’erano due persone. Ma entrarono ed uscirono in cinque minuti.

“Allora barone, veniamo a noi. Suo fratello……”

“A quanto ammonta il debito?”

“A cinque milioni di lire”.

Deapolis rimase in silenzio.

Poi: “E cosa ha ceduto?”

“Il castello di Porbolano, il lago, due masserie.”

Ancora silenzio.

“Compro tutto. Quanto vogliono i signori per rivendere?”

“Tre milioni e mezzo. Cifra non trattabile. Blocco unico.”

“Va bene.”

Il mare era ancora calmo. Il ritorno fu tranquillo. Ernesto conosceva i silenzi del barone e non li turbò.

“Buongiorno barone Clemente, ha viaggiato bene?”.

“Ottimo viaggio, caro Ernesto, mio fratello dov’è?”

“Vi sta aspettando in camera”.

“Eccomi.”

“Mi sei costato tre milioni e mezzo.”

“Ti ho detto che le carte erano truccate. Ho questo dubbio atroce.”

“Comunque, da ora, sei nullatenente. Ormai in tre anni ho comprato involontariamente tutte le tue proprietà. Se fossi stato il primo figlio non avrei avuto di queste disponibilità. Sono riuscito a tenere insieme tutto il feudo con grandi sacrifici. Due anni e darò tutta la cifra prestatami per questa operazione. Ma ora che non hai più nulla, cosa farai?”

“Non so. E’ una situazione inedita per me. Per qualche mese rimango al castello.”

“Non ho mai censurato il tuo comportamento. Eri libero di fare ciò che volevi con la tua roba. Ho comprato solo per non permettere che il nostro nome venisse sfiorato da nessuna macchiolina di fango. Se qualcuno viene a chiedere denaro per tuo conto io non pagherò nessuno. Ti prenderanno per un demente.”

“Non giocherò più. Nessuna mi farà credito. Ti conoscono tutti molto bene.”

“Mi auguro di si.”

Il barone Clemente andò a fare una passeggiata verso la spiaggia. Qui incontrò una giovane intenta a lavare un finestrone di un caseggiato. Fermava lo strofinio e cantava. Poi riprendeva a pulire.

“Ma siete davvero così contenta come sembrate?”.

La ragazza si girò e vide un uomo elegante come raramente le era capitato.

“Si. Sono contenta” rispose timidamente.

“Perché è una bella giornata di sole?”

“No. Perché mia sorella domenica si sposa!”

“Siete felice per lei?”

“Certo. Ma anche perché dopo rimango solo io in casa. E possiamo finalmente mettere da parte la mia dote.”

“Così poi vi sposate anche voi!”

“E si! Adesso così chi mi piglia?”

“Ma sapete cantare così bene!”

“E no, professò. Non basta, ci vuole la dote. E per fare la dote sai quante finestre dobbiamo lavare io e mia madre? Almeno per altri due anni. Speriamo di farcela….. Speriamo. Mia madre mi ha detto che ce la facciamo. Ora che si sposa Concetta ce la facciamo.”

“E vostro padre che lavoro fa? Anche lui contribuisce..no?”

“Mio padre è morto.”

Seguì un silenzio imbarazzato. Il canto smise. S’udì qualche cane abbaiare.

“Sono i cani del postino.”

“Mi dispiace. A che età lo avete perso?”

“A nove anni.”

“Ma questa spiaggia è sempre così isolata?”

“Eh, qui i turisti come voi, ne vengono pochi. Sono tutti dall’altro lato.”

“Ma dovete pulire molti altri vetri?”

“Un paio, ho quasi finito.”

“Ed ogni giorno fate questo lavoro?”

“Si, le ville sono tante ed i proprietari le vogliono tenere pulite. Il lavoro non manca.”

“Vi pagano bene?”

“Non mi posso lamentare. In un giorno io e mia madre facciamo due lire e anche di più. Se raggiungo 2000 lire, mi sposo.”

Il barone si allontanò, la giovane si rimise a cantare, i cani ad abbaiare, il sole a picchiare, il vento a tirare.

Giunto alla fine del grande viale, il nobile pensò alle duemila lire, ai due anni da lavorare, a quella contentezza.

Duemila lire. Quantificò e venne fuori una mano di poker. Duemila lire perse o vinte in venti secondi.

Non era stato il fratello a farlo sentire un cretino.


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