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Il boss-pentito in fuga si vendica della “cricca degli inquisitori”. Sparando un memoriale
10 Giu 2013 08:44

Si infittisce il mistero che ormai pare gravitare intorno alla figura di Antonino il Giudice, l’ormai latitante boss di cui da mercoledì scorso si sono perse le tracce. Inizialmente si era persino vociferato di un possibile caso di lupara bianca, sebbene paresse quasi certo un allontanamento volontario dalla località protetta in cui risiedeva agli arresti domiciliari con la compagna.

Ma ieri Nino il Nano, come è soprannominato, si è fatto vivo, e le sue dichiarazioni rischiano di scatenare una vera e propria bufera all’interno della Procura di Reggio Calabria, e non solo.

Tutto è nato dal plico che ha inviato al figlio Giuseppe, con la raccomandazione di consegnare il contenuto un memoriale e una card, agli avvocati Giuseppe Nardo e Francesco Calabrese, che le avrebbe dovute consegnare al presidente del tribunale Silvana Grasso, al pubblico ministero Giuseppe Lombardo, e divulgare alla stampa.

Presunto boss dell’omonima cosca dedita all’usura e al commercio di ortofrutta operante nel quartiere reggino di Santa Caterina che a otto giorni dall’arresto, nel luglio del 2010, decise di dar l’avvio alla propria collaborazione, Il Nano è testimone chiave in molti importanti processi attualmente in corso nei tribunali calabresi; autoaccusatosi delle bombe esplose sotto l’ufficio della Procura generale di Reggio Calabria nel gennaio 2010 e sotto l’abitazione del procuratore generale Salvatore di Landro nell’agosto dello stesso anno, oltre ché del lanciarazzi fatto trovare a duecento metri dagli uffici giudiziari come segnale intimidatorio nei confronti dei magistrati reggini, chiamando in causa anche il fratello Luciano Lo Giudice, Antonio Cortese, ritenuto l’armiere della cosca, e Vincenzo Puntorieri, attualmente imputati in un processo in corso presso il tribunale di Catanzaro.

Fu poi sempre il Nano a descrivere i legami di amicizia, rivelatisi poi infondanti, tra suo fratello Luciano e il numero due della Direzione Nazionale Antimafia Alberto Cisterna, causandone, all’epoca, l’iscrizione nel registro degli indagati da parte del Procuratore Giuseppe Pignatone, ora capo della Procura romana.

Ebbene nel memoriale Lo Giudice ritratta praticamente tutto, per «fare chiarezza a questioni che riguardano la verità dei veri fatti accaduti».

Si rivolge innanzitutto a Di Landro che da sempre, «a destra e a manca con sicura certezza e senza ombra di dubbio», lo ha definito testimone inattendibile dichiarandosi fortemente dubbioso del fatto che il Nano fosse il mandante degli attentati, e che il Nano invita a «dire quanto è nel suo pensiero», non assistendo «alla strage degli innocenti» senza fare nulla.

Quindi lancia pesantissime accuse nei confronti di quella che definisce «la cricca di inquisitori», che lo avrebbero «minacciato che se non avrei raccontato quello che a loro piaceva mi avrebbe spedito indietro e al 41bis», intimorendolo e dandogli un ultimatum per il giorno seguente, cosicché si potesse presentare loro «con discorsi convincenti e compiacenti», che dovevano «servire per la mia verità e per la loro convinzione».

Da chi era composta la cricca? Il Nano fa i nomi di Di Landro, Pignatone, Michele Prestipino procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio, Il sostituto procuratore Beatrice Ronchi, e il dirigente della Squadra Mobile Renato Cortese.

Descritto quest’ultimo come colui che «facendo la parte del buono controllava la mia mente convincendomi a più riprese di dire cose che io non sapevo. Mi parlava di Massoneria e servizi segreti suggerendomi nomi e cognomi legati al dott. Cisterna – Mollace, Neri – come Massimo Stellato e altri».

Il tutto a causa di «due tronconi di magistrati che si lottavano fra di loro facendo scempio “degli amici” di una delle due parti e colpendo onesti cittadini», come il re dei videopoker Gioacchino Campolo o il fratello Luciano Lo Giudice, che lui stesso accusò. E parte poi con le ritrattazioni, a partire da quella più rilevante: nessuna cosca Lo giudice scrive «è mai esistita». Nessuno affare illecito fra il fratello Antonino e Cisterna o Mollace, ma solo «amicizie normali».

Chiede scusa agli avvocati Gatto e Pellicanò «vittime di quel sistema sporco che padroneggia in certi ambienti della magistratura e che non risparmia nessuno». Rivela quanto è a sua conoscenza, che «Il Villani è responsabile degli omicidi dei Carabinieri» Fava e Garofalo, «uccisi per mano di due mercenari di armi incoscienti, uno villani e, l’altro Giuseppe Calabrò»; che Villani è autore del delitto del fratello di quello, l’imprenditore Francesco Calabrò scomparso dal 2006, i cui resti sono rinvenuti mesi fa al porto di Reggio.

«Mi sono voluto vendicare di tutti quelli che mi avevano fatto del male, senza risparmiare nessuno neppure il mio stesso sangue…Mi sono inventato tutto» continua a ribadire. Dell’omicidio Geria, scrive «non sono io il responsabile né Rosmini… Mi sono vendicato di lui perché c’è un’antipatia viscerale». Innocenti Giuseppe Reliquato, Bruno Stilo, Giuseppe Lo Giudice, puniti « perché anche loro mi hanno discriminato sempre»; i nipoti Fortunato e Salvatore Pennestrì «due poveri cristi che stanno scontando una detenzione ingiusta»; gli avvocati Gatto e Pellicanò «vittime volute da Pignatone, Ronchi, Prestipino e Cortese», a cui chiede «perdono»; al pari del fratello Luciano « mai affiliato» alla ‘ndrangheta, «né prima né dopo» e accusato per accontentare Pignatone.

Declina responsabilità nella cattura di Pasquale Condello, il Supremo, «mai conosciuto personalmente», su cui dice «ho calcato la mano cercando di impossessarmi di meriti che non sono mai stati miei» ritenendolo mandante dell’omicidio del padre e causa del suo arresto nel 2007, idem dicasi per De Stefano e Tegano, «non potendo fare altro ho agito come è noto a tutti».

E mentre sconfessa un altro pentito, Roberto Moio, che gli «raccontava di volersi vendicare di tutti», e chiarisce la vicenda, a suo dire mai avvenuta, dell’acquisto di armi in Austria su cui «’la Ronchi mi suggerì che erano state acquistate a Reggio Emilia», non manca di colpire il procuratore aggiunto della Dna, Gianfranco Donadio, che lo avrebbe convocato per un colloquio investigativo allo scopo di «“impiantare una tragedia a persone a me sconosciute tale Giovanni Aiello e una certa Antonella che non sapevo che esistevano». «Accettai quanto mi veniva suggerito dal dottor Donadio, facendomi firmare quanto a lui conveniva». È invece sulla presunta creazione di prove su volere di Donadio che si basa il video contenuto nella card.

Un memoriale che suscita molti punti interrogativi e, forse, un’unica certezza con cui lo stesso Nano termina «Un collaboratore di giustizia è un burattino e può causare danni irreparabili, colpendo in ogni direzione, costruendo castelli sulla roccia e talune volte difficili da smontare. Spero che questo servirà a giudicare sempre più attentamente a chi si presenterà davanti a voi signori giudici e che non si dia mai niente per scontato alle apparenze che si presenteranno».

Intanto mentre Cisterna si «appella a lui perché ponga fine subito alla sua latitanza e si consegni alla giustizia, nelle mani esclusive del procuratore di Reggio Calabria Cafiero de Raho», quest’ultimo precisa come «strategie come queste non ci toccano minimamente. La mafia o la ‘ndrangheta, nelle loro espressioni più avanzate si muovono con strategie particolarmente raffinate e tra queste c’è anche quella che vuole provocare separazioni o divisioni tra coloro che la contrastano, utilizzando di volta in volta strumenti che possono essere passivi o, invece, attivi, collusivi o concorrenti. Faremo tutte le indagini di nostra competenza». 

Di certo la stagione dei sospetti per il momento non si fermerà.


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